C’è stato un momento della mia vita in cui ho smesso di sentire qualsiasi cosa: freddo, caldo, fame, sete, sonno. Ho smesso di sentirli sul mio corpo perché ho iniziato a sentirli su quello di un altro: mio figlio appena nato. Una delle cose che succedono quando diventi mamma è che smetti di esistere, almeno per un po’. È una questione biologica ed evolutiva: devi tenere in vita un altro essere vivente, una missione così enorme e potente che servono tutte le energie di cui disponi. Serve la lucidità dell’istinto, sempre, in ogni momento, e penso che lei da sola consumi tutte le forze mentali e fisiche che hai nel post parto.
Per me quella fase di annullamento è stata in qualche modo magica e la ricordo con grande rispetto. È stata un’esperienza quasi extracorporea, e allo stesso tempo la normalità di quel momento. Difficilissima, certo, ma necessaria.
Però ecco, per quanto nessuna sia mai pronta a quello che la aspetta nel momento in cui diventa madre, forse avrei voluto sapere alcune cose prima. Avrei voluto sapere ad esempio che l’allattamento può essere più sfidante del parto, o che in certi momenti ti senti così fragile che non osi mettere piede fuori di casa perché rischi di romperti. Oppure che potresti piangere in continuazione sopraffatta dagli ormoni, dall’amore o dalla paura. Forse il mio compagno avrebbe voluto sapere quanto può essere difficile instaurare un legame con il proprio figlio, o quanto avrebbe rischiato di sentirsi solo e impotente in certi momenti. Avremmo comunque imparato come affrontare ogni cosa solo attraversandola, come fanno i genitori di tutto il mondo, ma forse saremmo stati un po’ meno frangibili. Forse non sarebbe cambiato nulla, o forse ci saremmo sentiti meno sopraffatti e avremmo almeno saputo a chi rivolgerci per avere l’aiuto giusto.
Mi sono chiesta spesso se esistano percorsi di accompagnamento alla nascita e alla genitorialità che approfondiscono tematiche meno pratiche, ma più legate alla sfera emotiva, psicologica e relazionale.
Che poi è quella la parte più difficile da affrontare.
Poi ho conosciuto Me First®, che ha la mission di aiutare i genitori del futuro costruendo un modello di genitorialità diverso perché più morbido con se stessi. Sembra un paradosso: siamo madri, siamo padri, abbiamo la cura intrinseca, ma nel progetto di genitorialità non riusciamo a prenderci cura di noi. E Me First cerca di aiutare i genitori a prendersi cura di sé come persone. Ne ho parlato con la sua fondatrice, Cristina Di Loreto.
Partiamo dall’inizio: come ti è venuta l'idea di Me First®?
Sono diventata mamma nel 2015, di Azzurra, a 30 anni, mentre mi stavo specializzando come psicoterapeuta, e per me la maternità è stata come un frontale in autostrada. Ero una persona molto motivata, se volevo una cosa la ottenevo: con lo studio, col sudore della fronte, con l’impegno. Nella genitorialità è andato tutto storto.
La gravidanza e il parto sono stati idilliaci, ma nel momento in cui mia figlia è nata sono sorte delle problematiche che l’hanno portata prima in osservazione 24 ore e poi in terapia subintensiva per 10 giorni. Io sono tornata a casa da sola e ho avuto un maternity blues difficile da affrontare dal punto di vista emotivo: questa tremenda insoddisfazione e tristezza con un'aspettativa infranta che era “ora divento mamma, sarò felice di questo grande traguardo”. Si è aggiunto un mancato allattamento, per quanto mi sia tirata il latte per sei mesi, e quindi tanto, tanto senso di inadeguatezza nel ruolo di madre.
Questo postpartum per me molto faticoso, mi ha fatto capire che come psicologa non avevo gli strumenti per poter affrontare una situazione del genere. Ai 2 mesi di Azzurra sono andata in terapia ed è stato utile, eppure mi sono chiesta
perché una persona deve arrivare alla quasi patologia per farsi supportare in un evento di vita che in realtà tutti ci disegnano come naturale?
Mi sono resa conto che mancava nel mondo della psicologia uno strumento di prevenzione, quindi è dal 2015 che avevo in mente questo progetto di supporto alla maternità, alla transizione da individuo a genitore, dal punto di vista psicologico. Pensavo a un progetto di empowerment e prevenzione, e ne ho iniziato a parlare con alcune colleghe. Poi nel 2019 è arrivato il secondo figlio, Manuel, e poco dopo la pandemia. Io sono anche psicologa dell'emergenza, quindi in pandemia ho supportato tante persone e aziende e…. dopo 70 giorni non stop di lavoro sull’emergenza sono andata in burnout. Sono madre, stavo vivevo il ruolo di caregiver nella vita ma all’ennesima potenza anche nella professione, in quel momento mi ero dimenticata di me. È stato allora che mi sono detta me first: ok, è ora di tirar fuori questo progetto perché forse non manca solo a me.
E quali sono stati i primi passi?
Non ho dato per scontato che la mia esperienza fosse quella di tutti, ho avuto un approccio molto scientifico a tutto il progetto e ho creato una survey con un esperto in psicometria. Nel 2020 l’abbiamo mandata ai contatti personali e hanno risposto quattrocento persone in una settimana. Ho scoperto che tantissime donne avevano avuto la mia stessa esperienza: tremendi sensi di colpa, di inadeguatezza, difficoltà nel postpartum, un partner che non capiva cosa stessero attraversando, loro nemmeno. Questa sensazione di non avere mai tempo, di non essere abbastanza, di non poter lavorare, di essere un buon genitore, eccetera. E quindi da lì ho iniziato a creare un progetto che inizialmente era rivolto alle madri come persone, quindi libere professioniste o comunque anche dipendenti ma non supportate dall'azienda.
Nel giro di tre mesi siamo arrivati alla prima azienda, Bialetti, e a lavorare sulle loro mamme, per poi arrivare a Barilla, il nostro secondo cliente, dove abbiamo lavorato fin da subito anche sui papà. Oggi lavoriamo con madri e padri verticalmente e conoscendo il vissuto di entrambi in maniera scientifica e minuziosa.
Nel report “Come stanno i Working Dad in Italia?”, il 74% dei padri ammette di aver vissuto un distress emotivo rispetto alla soddisfazione del proprio ruolo genitoriale. Oltre a congedi più lunghi e maggior flessibilità da parte delle aziende, c'è dell'altro che possiamo concretamente fare?
Il distress genitoriale è una dimensione correlata all'ansia, alla fatica, agli alti livelli di stress portati dal ruolo genitoriale. Quello che possiamo fare per alleviarlo probabilmente è aumentare la flessibilità. Nel momento in cui mi posso dedicare al ruolo genitoriale con una rilassatezza maggiore nei tempi, avrò anche una lucentezza mentale diversa. I padri hanno bisogno anche di strumenti e competenze relazionali ed emotive da spendere nella relazione con i propri figli, perché a differenza delle donne, che comunque essendo sempre state investite del ruolo di caregiver primario si informano, leggono libri, cercano in un qualche modo di migliorare anche il loro essere madre, forse anche troppo, i papà oggi si trovano a conciliare un doppio ruolo senza che nessuno abbia spiegato loro come si fa.
Quello che possono fare le organizzazioni è: flessibilità oraria, congedi estesi, però anche formazione ed empowerment psicologico per dare strumenti e risorse che ancora questo chi riveste questo ruolo sociale non ha sviluppato e che comunque non dovrebbe nemmeno sviluppare da solo.
La genitorialità ha bisogno di essere accompagnata, non è una esperienza di vita così naturale, non tutti sappiamo come gestire la relazione con i figli o certi momenti che viviamo, bisogna anche avere un po' di un supporto tecnico, senza eccedere, perché comunque anche l'intuito e la spontaneità sono importanti. Ai padri oggi manca un accompagnamento al ruolo genitoriale e all’equilibrio personale e di coppia.
Quando parli di empowerment e prevenzione intendi che offrite un supporto prima, durante e dopo l’essere diventati genitori?
Seguiamo la persona che diventa genitore da quando ancora ci sta pensando a quando vedrà i suoi figli lasciare il nido familiare. La nostra ricerca ci dice che la fascia di età più critica è tra gli 0 e i 6 anni, ma tendenzialmente un genitore continua ad avere sfide per una buona parte della vita, anche se magari è meno stanco per affrontarle.
Lavorate sia con le aziende che con i singoli, quali sono le maggiori difficoltà che riscontrate?
Di fatto la maggior parte delle donne che si affacciano ai programmi sono mamme lavoratrici dipendenti o partite IVA che quindi trovano difficoltà nella conciliazione e nel bilanciamento di quello che noi chiamiamo vita-lavoro-accudimento.
Se usiamo il termine equilibrio vita-lavoro per le donne significa accudimento-lavoro e invece vogliamo stressare il fatto che esiste anche la vita. E loro sentono questo tema forte.
Anche nelle organizzazioni i temi sono più o meno gli stessi: la difficoltà a delegare, a prendersi tempo per sé o per la coppia, ad allinearsi con il/la partner sull’aspetto educativo genitoriale.
E il senso di colpa?
È uno dei nostri cavalli di battaglia: abbiamo un kit strategico che aiuta a gestirlo perché è uno dei driver emotivi più forti per licenziarsi e anche non dedicarsi tempo di qualità. Ci sentiamo in colpa perché lavoriamo, e ci sentiamo in colpa perché ci prendiamo del tempo per noi.
Nel report sulle “Working Mom” C'è un valore importante che è il Mattering. Secondo te è possibile uscire dallo schema del bisogno di gratificazione esterna (comunità, lavoro) e mantenere comunque un buon livello di soddisfazione personale? Mi spiego meglio: abbiamo bisogno del riconoscimento di qualcuno per sentirci davvero bene?
Il mattering è un elemento fondamentale per la vita dell'essere umano. La letteratura scientifica ha dimostrato ampiamente che più alti sono i livelli di mattering, cioè più la persona sente di contare, di valere per la comunità di riferimento, per la sua famiglia, per la sua organizzazione professionale, più è alto il suo benessere psicologico.
Questo non significa che se non arriva un valore dall'esterno allora senti di non valere niente. Il mattering è quella dimensione in cui sai che il tuo ruolo, o comunque il tuo esistere, contano anche per la società e non solo per te stessa.
L’essere umano non può darsi significato da solo, perché è un essere sociale, ma il suo significato esterno non è necessariamente correlato all’autostima. Il mattering è legato al significato del proprio esistere all’interno di una società.
Nella maternità ci si sente molto sole e anche non supportate, non comprese, perché la maternità non è valorizzata dal punto di vista sociale nel nostro Paese.
Ti faccio un esempio: se io vado in giro per una città e vedo una piazza con dei giochi per bambini, capisco che la società sta pensando che lì ci potrebbe essere una madre con dei figli. E avere uno spazio per far giocare i bambini è qualcosa che può essere importante per lei e per loro.
Nel nostro Paese già è tanto se abbiamo un parco vicino a casa, probabilmente nel parco ci saranno comunque i giochi rotti o trascurati. È un esempio banale, ma ci sono culture che valorizzano molto di più la maternità e la genitorialità come bene collettivo, bene sociale.
Questo metodo di prevenzione Me First non dovrebbe essere integrato anche nelle strutture sanitarie, nelle associazioni, nei consultori…?
Dovrebbe essere un accompagnamento integrato tanto quanto gli screening, le ecografie. L’empowerment psicologico di una persona che vuole diventare genitore dovrebbe essere offerto gratuitamente dallo Stato, perché è prevenzione sotto tantissimi aspetti, e non ultimo della nostra economia che sta andando al collasso, perché una mamma su due non ha un lavoro nel nostro Paese.
C’è da dire che prima di Me First niente di simile era stato fatto, non esistono metodi di empowerment sistematizzati come il nostro in ambito perinatale.
Cos’è per te la gentilezza?
Me First è un acronimo: Mentoring, Empowerment, Flessibilità, Immersione, Ritualità, Strategie e Trappole. La flessibilità è una delle skill più importanti per la prevenzione della salute mentale, al di là dei ruoli sociali. È proprio la rigidità che porta alla fragilità, la flessibilità al contrario crea solidità, quindi essere gentili è anche un modo per essere flessibili con se stesse e se stessi. Non auto accusarsi, non alzare sempre l'asticella, over performare, non giudicarsi troppo.
Nella genitorialità spesso si fa l'errore di orientarla solo verso i nostri piccoli, e così ci dimentichiamo che loro imparano da noi il saper essere o non essere gentili con se stessi. Quindi un altro valore di Me First è che ti insegna che tu vieni prima di tutti a prescindere da chi sono gli altri. La gentilezza è un aspetto che non dovrebbe mai essere univoco, ma sempre bidirezionale. È qualcosa che non si predica ma si pratica, anche con se stessi.
Io vedo gentilezza nelle piccole cose che ogni giorno possiamo fare per noi, che può essere ricordarsi di struccarsi prima d'andare a dormire, dare il bacio del buongiorno al nostro partner o alla nostra partner prima che esca di casa, abbracciare i nostri bambini e magari dire ai noi stesse o noi stessi che abbiamo fatto qualcosa di buono oggi.
La gentilezza è anche la capacità di evitare di essere troppo rigidi con se stesse o se stessi, di immergersi nel presente, vivere quindi con qualità al nostro tempo, che sia con noi, con il partner o con i figli, e ritualizzare queste cose che ci fanno stare bene rendendole abitudini quotidiane.
Zollette
Piccole dosi di gentilezza
Frontiers for Young Minds è una rivista scientifica i cui articoli, scritti da esperti in materia, sono revisionati da bambini e ragazzini tra i 9 e i 15 anni che aiutano a rendere questi concetti comprensibili per i loro coetanei.
Aspettative, incertezze, sogni, paure: “Avere vent’anni” è il tema di questa edizione del Festival di Fotografia Europea a Reggio Emilia, che inaugura il 24 aprile. Non posso perdermela nell’anno in cui ne compio esattamente il doppio 😊
Flipped è un pluripremiato cortometraggio d’animazione di Hend Esmat e Lamiaa Diab, che segue una giornata qualsiasi di genitori e figli, con l’unica differenza che i loro ruoli sono invertiti.
Belle Parole
/Uitwaaien/
In olandese significa letteralmente "camminare contro il vento" o "fare una passeggiata in un giorno ventoso". Si porta dietro però un senso più profondo: è il concetto di uscire per purificare la mente, per rinfrescare i pensieri. È una metafora della necessità di ritrovare chiarezza o calma in un momento di confusione, come se il vento potesse "spazzare via" le preoccupazioni. Facciamo che per una volta è vero, usciamo quando fuori c’è vento e lasciamolo fare.
Nessuno stato è così simile alla pazzia da un lato, e al divino dall’altro, quanto l’essere incinta. La madre è raddoppiata, poi divisa a metà e mai più sarà intera.
(Erica Jong)