Il progetto a mano libera è il progetto perfetto, mi ha detto qualche giorno fa Elena (Maricone, prima ospite di Morbido) parlandomi dei suoi laboratori davanti a una fetta di colomba al pistacchio. Nel disegno gli errori possono sempre diventare qualcos’altro, ha continuato, spiegandomi come per i bambini questa dinamica è all’ordine del giorno: escono dalle righe, macchiano il foglio, sbavano una linea ed è sempre qualcosa di bello, non uno sbaglio. Negli adulti al contrario questa possibilità è un freno a mano tirato, è l’ansia da prestazione o da precisione, come la chiamo io. È una paura che spesso inibisce la creatività. E mi son chiesta, allargando il campo, ma se anche nella vita gli errori potessero diventare qualcos’altro? Mi sono anche risposta di sì, che lo diventano, sempre. Gli errori sono solo errori in tre condizioni: se feriscono qualcuno, se li guardi nello specchietto retrovisore e se ti ostini a chiamarli con questo nome, altrimenti sono eventi a mano libera.
C’è un laboratorio di Bruno Munari che si chiama “Il gioco delle forme” che consiste nello strappare dei pezzi di carta e poi immaginarsi che cosa potrebbero essere: un coniglio con tre orecchie, una balena con le ali, un albero di nuvole. È un bel gioco per stimolare l’immaginazione nei bambini e per passare il messaggio che ogni cosa può essere bella se hai lo sguardo aperto, anche un pezzo di carta straccia. Anzi, che ogni cosa può essere Qualcosa. E mi piace tanto questo collegamento tra occhi e mani, del liberare l’immaginazione insieme alle mani, cosa mai può esserci di sbagliato nel risultato di una così forte sintonia tra pensare e fare? A volte può capitare un non previsto, una discordanza tra quello che abbiamo in testa e quello che riusciamo a realizzare, ma chiamarlo errore è limitante e definitivo.
Qualche giorno fa mi sono trovata davanti questa frase: “Se Dio avesse voluto che seguissimo passo dopo passo le ricette, non ci avrebbe dato le nonne” che ha unito un po’ di cose che mi giravano in testa. Io a mano libera faccio le torte, lo faccio da quando sono piccola, ho imparato a farle con mia nonna che non ha mai avuto un libro di ricette sul tavolo. Di recente mi sono ributtata in questo ricordo per un corso di scrittura autobiografica che ho iniziato lunedì scorso. L’esercizio iniziale consisteva nel raccontare un ricordo significativo, e io ho ripensato a quei pomeriggi d’estate in cucina della nonna a fare le torte, insieme a mia sorella Margherita. La nonna, matrona di una famiglia di tre figli grandi, grossi e affamati passava le giornate in quella stanza della casa che era solo sua ma di pomeriggio diventava nostra. Ci insegnava tirare la pasta, a fare gli gnocchi con la forchetta e le orecchiette col pollice. Ma soprattutto ci faceva fare le torte. Tagliare le mele, setacciare la farina, montare le uova, sciogliere il cioccolato. Io ero l’addetta al limone: ne grattugiavo la scorza dentro l’impasto. Ne ricordo ancora il profumo sulla punta delle dita, e ricordo anche le mani cariche di anelli di mia nonna che impastava la teglia col burro, la torta che si gonfiava, l’aria che sapeva di vaniglia. Avevo la sensazione che qualsiasi cosa capitasse in quello spazio bellissimo, protetto e affacciato su un prato immenso, fosse libera. La certezza che poteva andare tutto storto e sarebbe stato comunque perfetto. Forse solo quando sei bambino puoi permetterti questo lusso perché c’è sempre qualcuno più grande che rimedia per te. Io ne avevo ben due, mia sorella e mia nonna, pronte a recuperare le uova rotte o abbassare la temperatura del forno. Ma da qualche parte, mi dico oggi, ci deve essere uno spazio dove ciascuno di noi può progettare a mano libera senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.
Oggi quando sono felice faccio una torta, quando sono arrabbiata faccio una torta, quando sono nervosa faccio una torta. Solo quando sono di fretta non la faccio perché sennò mi viene male. Per tanti è un passatempo, per me è una terapia, per due ragioni: la prima è che è un processo che ha un inizio e una fine, i cui passaggi sono sempre divertenti e il risultato è per la maggior parte della volte piacevole e ad alto contenuto di zuccheri. La seconda ragione è che la torta che faccio non è mai solo per me. Appena si raffredda la taglio a fette e le regalo a chi mi capita a tiro.
Spesso nelle interviste chiedo “Qual è la cosa più gentile che fai per te stesso/a?”. Io risponderei a caldo “le torte” e a freddo “permettermi di sbagliarle”.
Zollette
Piccole dosi di gentilezza
Coraline, protagonista dell’omonimo romanzo di Neil Gaiman, avrebbe dovuto chiamarsi Caroline ma provvidenziale fu un errore di battitura. Gaiman da sempre grande fan degli errori, li celebra anche qui.
Ensemble è un festival di due giorni a Milano per affrontare il tema della genitorialità senza barriere, tra workshop, conferenze e spazi a misura di bambino. È organizzato da LUZ e io ci andrò, perché se c’è qualcuno che ha davvero tanta paura degli errori sono proprio i genitori (Andrea M.Alesci sarebbe fiero della mia rima).
Amedeo Berta, raccoglie piccole storie di gentilezza che pubblicherà due giovedì al mese. Perché dobbiamo parlare, parlare, parlare di gentilezza e non dimenticarci mai che esiste.
Belle parole
/Michchhāmi Dukkaḍaṃ/ मिच्छामि दुक्कडम्
È un'espressione indiana/gianista che significa "Ti chiedo scusa se ti ho causato dolore involontariamente”. È usata nel Kshamavani Diwas o Giorno del Perdono, evento in cui i giainisti fanno ammenda per tutte le offese commesse. La frase viene usata anche quando una persona commette un errore, si ricorda di averlo fatto nella vita quotidiana o chiede perdono in anticipo per quelli involontari.
(Grazie Nicolò per la segnalazione)
E una domanda
Qual è la cosa più gentile che hai fatto/fai per te?
Grazie per avermi letta fino a qui, ti auguro una bella domenica.
A presto
Valentina
Cara Valentina, mi fa sempre molto bene leggerti, che nutrimento. Grazie davvero a te.
Grazie Valentina,anche leggerti ogni due domeniche e 'una cosa gentile che faccio per me oltre acquistare fiori per me o regalarli