Io ci ho provato a tornare al mio lavoro dopo la maternità. Davvero. Ricordo che prima di partorire dicevo alle mie amiche che non mi sarei fermata più di tre mesi, ai miei colleghi che comunque, una volta ripresa dal parto, avrei letto e risposto alle mail e partecipato alle riunioni all’occorrenza. Ho partorito a settembre e ricordo che a novembre ero già in ufficio per un meeting, con mio figlio in braccio che ciucciava, che provavo a seguire il discorso attorno al tavolo mentre una grande parte di me pensava “Ma cosa sto facendo qui?”. E io il mio lavoro lo amavo, sono sempre stata appassionata di ciò che facevo, per me era una missione e non solo un modo per guadagnarmi lo stipendio. Ma quest’idea coltivata per mesi di rientrare in fretta, di essere disponibile al più presto, di ritornare quella di “prima”, quest’idea nata dalla paura di perdere il posto e il ruolo, non ha fatto altro che erodere la mia motivazione, tanto che quando, dopo cinque mesi di maternità, è stato il momento di tornare davvero, mi sentivo come quando sei alla stazione e ti accorgi che sei salita su un treno che sta andando nella direzione sbagliata. Ci sono salita, ci sono rimasta per otto mesi, e poi ho chiesto di scendere. Con la maternità ero cambiata molto, avevo una consapevolezza diversa di me, della mia vita, del mio tempo.
Ho la partita iva e non ho avuto grandi sostegni, niente mesi aggiuntivi di congedo o NASpI per me, niente TFR, solo i miei risparmi e un compagno che mi ha dato tutto il supporto possibile. Per fortuna la mia famiglia ha un’azienda che stava cercando una persona con le mie competenze e mi ha permesso di entrare nelle dinamiche lavorative con i tempi e i modi di cui avevo bisogno in quella fase della vita, cioè quando tuo figlio ha un anno, lo stai inserendo al nido e ha ancora estremamente bisogno di te giorno e notte. Adesso è un anno che lavoro lì, la mia routine è consolidata e sono soddisfatta. A volte sento la mancanza della mia vita di prima, quando potevo confrontarmi con centinaia di colleghi, quando andavo a Milano tutti i giorni, ne assorbivo l’energia, quando uscita dall’ufficio mi fermavo quasi sempre a fare due chiacchiere un aperitivo con qualche collega. Ho avuto la fortuna di vivere queste meravigliose opportunità, mi hanno arricchita e resa quella che sono oggi, magari un giorno la mia vita assomiglierà ancora a quella, con un po’ più di consapevolezza. O magari no, e andrà bene così. Ma adesso ne ho un’altra di fortuna, anzi, tante: quella di lavorare vicino a casa, fare colazione con mio figlio, portarlo e prenderlo tutti i giorni al nido, stare con lui quando è malato senza impazzire per l’organizzazione, portarlo con me in ufficio e farlo giocare lì mentre finisco quello che ho lasciato indietro. La priorità adesso è lui, e la mia fortuna è poterla assecondare senza ansia, stress e troppi sensi di colpa. Perché è questo che succede di solito alle persone quando diventano genitori: desiderano poter passare del tempo con i propri figli.
A volte però mi chiedo: sarebbe potuta andare in un altro modo? Avrei potuto continuare a fare il lavoro di prima con le condizioni di oggi (fare colazione con mio figlio, portarlo e prenderlo tutti i giorni al nido, stare con lui quando è malato senza impazzire per l’organizzazione, portarlo con me in ufficio)?
E mi chiedo anche che mamma e persona sarei se invece non avessi avuto scelta, se non avessi avuto dei risparmi, una casa, un compagno che mi supporta.
Se avessi dovuto rientrare dopo solo cinque mesi di maternità in un ruolo per cui sarei stata lontana da casa e da mio figlio dieci ore al giorno tutti i giorni, come mi sentirei oggi? E soprattutto, come starebbe crescendo mio figlio?
Una carriera family-friendly
Inutile negare l’evidenza, se in Italia una madre su cinque lascia il posto di lavoro dopo il primo figlio e una su due lo lascia dopo il secondo, è un chiaro segnale che qualcosa va male, anzi malissimo nel mondo del lavoro. Che non è un mondo per mamme in un Paese per mamme. Che c’è un enorme problema di parità genitoriale (lo dimostra il fatto che sono cinque righe che parlo solo di mamme), e tanta ignoranza sul tema. Ho intervistato Claudine Rollandin, founder di Promama, una startup che supporta i genitori nel mondo del lavoro e le aziende nel percorso per diventare family-friendly.
Claudine ha lasciato il posto di lavoro durante la maternità per costruire e lanciare il suo progetto, con la missione di cambiare le dinamiche rivolte ai genitori nel mondo del lavoro.
Come hai trovato il coraggio di farlo?
Il coraggio me lo ha dato proprio la maternità. Da sempre lavoro nel mondo delle startup, ancora prima di laurearmi ho fatto uno stage di un anno in un incubatore a San Francisco dove ho iniziato ad appassionarmi al settore. Prima di lanciare Promama lavoravo in una startup (che poi è diventata scaleup), ma non mi era mai venuto lo slancio di farne una tutta mia, perché ho sempre avuto la sensazione che solo se hai una mission in cui credi davvero puoi portare avanti un progetto sa sola, da zero. Se non ce l’hai può risultare molto difficile trovare l’energia necessaria per farlo. La maternità mi ha dato una mission che sentivo mia: affrontare un problema che avevo vissuto in prima persona ma che era enorme, diffuso, perché centinaia di persone stavano attraversando (e tutt’oggi attraversano) la mia stessa difficoltà. E poi c’era il coraggio di dire “ho fatto una figlia, posso fare una startup”.
Prima di decidere di lanciarmi ho avuto un momento in cui ero divisa tra il cercare una nuova occupazione (sapevo che non sarei rientrata nel mio lavoro di prima perché si era creata una serie di situazioni non idonee al mio rientro) e dall’altro avevo questo turbinio di idee in testa… tanto che avevo creato un file excel in cui mettevo tab per ogni argomento e che aggiornavo quotidianamente. Ricordo che in ogni situazione in cui mi trovavo mi venivano in mente dieci idee su cosa avrei potuto fare! Poi è arrivata Promama e si è piantata nella mia mente come un semino, ogni giorno quando mettevo a letto mia figlia ci pensavo, disegnavo il logo… e a un certo punto ha iniziato a occupare uno spazio così grande del mio cervello che ho deciso di tirarla fuori.
Penso che la maternità generi tanta creatività, e tu ne sei un esempio lampante. Secondo te perché?
È il primo momento dopo tanti anni in cui tiri fuori il cervello dalla ruota del criceto e metti in discussione quello che stai facendo, che hai fatto fino a quel momento. Sei nelle condizioni di essere fuori dalle dinamiche normali e quindi puoi permettere alla tua testa di pensare fuori dagli schemi, di pensare cose che finché eri risucchiata a lavorare in ufficio dieci ore al giorno non ti venivano neanche in mente.
Spesso dico che quando sono diventata mamma mi sono sentita come quando nei videogiochi sblocchi un nuovo livello, un mondo immenso di cui ignoravi l’esistenza. E scopri di avere delle capacità che prima non sapevi di avere, ti senti una persona diversa e provi a indagare chi sei anche attraverso la ricerca di chi vorresti davvero essere.
Per me è stato come se dopo dieci anni in cui il percorso era scritto, avessi una lavagna bianca nel cervello e la possibilità di capire cosa potevo metterci: strada standard e colloqui di lavoro, o un nuovo disegno? Nel momento in cui dai a te stesso lo spazio per uscire dagli schemi cominci a generare il nuovo.
A me la maternità ha dato il coraggio per fare qualcosa che prima mi intimoriva perché avevo paura di giocarmi la carriera. Le diecimila paranoie che nella vita precedente mi avrebbero assalito, in quel momento mi sembravano possibilità. Non avevo ansie, sentivo che era una mission mia, che faceva bene a me ma anche agli altri, perché non arrivino ad avere le stesse difficoltà che ho attraversato io.
Mi ricordo che durante la maternità non avevo la paura del futuro e degli eventi come ho sempre avuto, mi sembrava tutto molto gestibile e come se i problemi avessero una dimensione diversa.
Per me non è stato così, io ho avuto una fase iniziale di preoccupazione, quando ad esempio vedevo nel mio posto di lavoro delle dinamiche che non andavano più bene. Colloqui che facevo e poi quando dicevo che ero in maternità andavano male… Poi è scattato qualcosa, messe da parte le sensazioni più negative, lì c’è stato un cambio di mindset, i problemi sono diventati opportunità. Ho pensato “Se posso disegnare io il prossimo capitolo, disegno qualcosa a cui tengo.”
Promama si rivolge ai genitori, ci sono molti professionisti che si rivolgono a voi o soltanto donne?
È una domanda che mi fanno spesso. I genitori che cercano lavori family friendly sono più mamme, la stragrande maggioranza sono donne perché per come è la situazione lavorativa oggi è normale che sia così. Guardando i dati, la carriera dell’uomo da lì in avanti migliora, quelle delle donne va a scatafascio. Lavoriamo molto con le aziende sulla parte di sensibilizzazione per dare spazio ai papà, perché il tema è che per dare più spazio alle donne nel mondo del lavoro bisogna dare più spazio agli uomini nel ruolo di cura. Bisogna entrare nelle aziende e cambiare la mentalità che vede l’uomo lavoratore prima di qualsiasi altra cosa. Quindi lavoriamo con le aziende sul concetto di genitorialità a 360 gradi, lato utenti che cercano lavoro invece siamo molto spostati sulle donne. Il mio sogno è che un domani cerchino lavoro su Promama anche i padri, nel momento in cui le aziende presenti sulla nostra piattaforma saranno tutte quelle che offrono congedi maggiorati ai papà. Da un punto di vista occupazionale il problema è lì, da un punto di vista di dinamiche il problema è molto grande perché è difficile per i padri riuscire ad avere lo spazio, a sentirsi sereni nell’esercitare il ruolo di padre.
Quando io e mio marito siamo diventati genitori ci è sembrata la cosa più normale del mondo che a casa ci stessi io e che lui prendesse le sue settimane di congedo nelle vacanze estive o nelle feste di natale, invece che stare a casa con noi all’inizio. Era una dinamica che avevamo in testa così, senza nemmeno rendercene conto. In questi anni di rielaborazione ci siamo accorti che non abbiamo fatto le cose nel migliore dei modi. Se qualcuno ai tempi fosse arrivato a sensibilizzarci, probabilmente ci avrebbe fatto vedere le cose da un punto di vista diverso. Lavoriamo con tante aziende che si impegnano per aumentare i congedi per i papà, ma questi poi fanno fatica a prenderseli. I neo padri non hanno mai visto nessuno farlo prima di loro, perché i loro colleghi e i capi non hanno preso il congedo. È culturalmente e socialmente accettato il fatto che un padre il giorno dopo, o due settimane dopo, torni al lavoro. Sarebbe molto strano il contrario.
È necessario che l’ambiente lavorativo faccia sentire al sicuro i papà che vogliono muoversi in questa direzione. L’azienda Fater dà un congedo di tre mesi ai papà e il 100% di loro li usa. È una combinazione più unica che rara: un congedo così esteso e un’adesione totale non l’ho mai visto in nessuna azienda. È stato un percorso che ha richiesto del tempo, all’inizio la sensazione dei papà era di straniamento, si chiedevano dov’era la fregatura. Convincerli che non c’era nessuna fregatura, anzi, che come azienda ci tenevano al fatto che li utilizzassero è stato un processo lungo compreso di di role modeling: i ruoli apicali per primi si sono spesi su questi temi e sul ruolo centrale che davano alla famiglia.
Qual è il primo passo che deve fare un’azienda per diventare family-friendly?
Il primo indicatore è il mondo della flessibilità, dello smart working. È quello che i genitori ci dicono essere in assoluto il più impattante e che li aiuta maggiormente nell’organizzazione della vita. E poi l’ascolto. L’azienda deve mettersi in ascolto, farti sentire visto, accompagnato in questa fase complessa della vita, farti sentire che in qualche modo è lì per te, sta ascoltando se hai necessità particolari.
Accompagnamento e rientro: quanto possono essere processi standard e quanto invece individuali? Come rendere sostenibile il fatto che siano “personali” in un’azienda con più di 500 dipendenti?
È chiaro che se sei un’azienda piccola e hai una maternità all’anno la gestisci individualmente, nel momento in cui arrivi a numeri consistenti ci deve essere un equilibrio tra le due. Se non hai alcun tipo di processo e procedura, pensarlo ad hoc per ogni mamma non è sostenibile, e non è detto che la persona possa immaginare cosa possa esserle utile in maternità. Ci devono essere degli incontri fissi con HR e Manager, prima e dopo, devi avere un tempo di reboarding, magari un buddy che puoi contattare per farti aggiornare nel momento in cui ne hai bisogno. L’azienda può programmare una newsletter per le donne in maternità con le novità del mese e poi ognuna può decidere se riceverla o meno. Quindi l’ideale sarebbe avere una serie di strumenti personalizzati che si inseriscono in una procedura aziendale.
Quali sono le maggiori difficoltà a cui vanno incontro le persone che vi contattano?
Rispetto al lavoro precedente è in generale la mancanza di flessibilità, o magari difficoltà figlie del ruolo che si aveva prima, un ruolo che per come è strutturato risulta anche complicato cambiarlo, o non permette flessibilità. Ci sono persone che si confrontano con situazione valoriali in cui non si ritrovano, come quella che ho vissuto io, e che per questo cercano qualcosa di diverso. Si creano dinamiche più o meno gravi principalmente legate a una cultura aziendale poco sana e che possono portare le persone ad andarsene.
Alcune mamme hanno una vita che non è più compatibili con il ruolo che avevano prima e si chiedono come fare a 35/40 anni a cambiare percorso di carriera. Per i ruoli da ufficio è potenzialmente più semplice (almeno sulla carta) perché c'è più margine di dare flessibilità, ma alla resa dei conti poi moltissime non la ottengono.
Per i ruoli non da ufficio, come il retail, la produzione o i trasporti, è necessario pensare a un modo diverso di far funzionare le cose.
Dove ti senti appoggiata e supportata dall’azienda, che ti è vicina durante la maternità, vedo che spesso c’è una sorta di gratitudine. Chi non si è sentita sola in un momento in cui tante altre si sono sentite abbandonate, riconosce un legame. Per chi invece si sente dimenticata, inizia uno scollamento che può far mettere in dubbio tutto. Nelle organizzazioni che sono attente a questo tema, il tasso di rientro dalla maternità è del 100%.
Secondo te esiste un modello di posto di lavoro “gentile”? E se sì, come deve essere?
Un posto di lavoro che mette le persone in primo piano. Nel momento in cui ascolti le persone ne deriva un comportamento gentile. Io considero la gentilezza una leva tra le più family-friendly perché una gestione empatica del rapporto con le persone fa tanto. Io ho messo la gentilezza come primo operating principles di Promama perché secondo me è proprio la base dei rapporti lavorativi e personali per una collaborazione che faccia star bene tutti.
Zollette
Piccole dosi di gentilezza
Working Mom di Daniel Wilner è un breve documentario che mostra la vita quotidiana di una mamma lavoratrice. Difficile, straordinaria.
Nathan Yau, fondatore di uno splendido di Flowing Data, è evidentemente un padre felice quanto rassegnato.
La sostituta è una graphic novel di Sophie Adriansen & Mathou che racconta la lotta silenziosa di una donna alle prese con le difficoltà della maternità.
Belle parole
/Fase/
Periodo che segna un cambiamento rispetto a uno stato precedente, e in genere ciascuno dei vari momenti di uno sviluppo. La maternità per una donna non è una pausa dalla sua vita, ma un passaggio della vita. Non è inquadrabile, calcolabile, confinabile, è un momento di sviluppo potente e delicato. Da maneggiare con cura, da parte di tutti.
Se anche solo per un istante pensavo di essere strana, gli occhi di mia madre mi guardavano da sopra gli occhiali, e come due puntine da disegno mi fissavano saldamente al mio posto nel mondo.
(Banana Yoshimoto)
Guarda t capisco benissimo, anche nella mia famiglia hanno un’attività e io non ho mai voluto lavorarci. Adesso sono pentita: dove lavoro ho chiesto di lavorare un’ora in meno al giorno e mi hanno rifiutato la richiesta, sono appena rientrata e mi chiedo come farò a combaciare tutto quando non avrò più le ore di allattamento. Inutile dirti che posso cercare lavoro, ma chi la assume una neo mamma con il bimbo al nido che si ammala?
Tanto per cominciare le ore di lavoro dovrebbero essere uguali alle ore di scuola, (o leggermente meno, giusto il tempo del tragitto in macchina 😅) dove possibile si dovrebbe lavorare per obiettivi e non A ORE, e soprattutto, lo smart working dovrebbe essere una scelta individuale e personale, e non una concessione. Forse, se le cose stessero così, potremmo considerarlo già un buon punto di partenza… io ho ricominciato da poco a lavorare “in ufficio” perché ero stanca di lavorare da sola e da freelance, ma vivo con l’ansia di una febbre dei bambini e devo ammettere che non portarli più a fare sport e non essere a casa quando tornano per fare i compiti con loro mi sta pesando molto più di quanto avevo immaginato…
La nostra società celebra le nascite, ma odia i bambini, e un po’ anche le mamme… 😔😔😡