Condividere uno spazio pubblico con dei bambini è considerato una tortura. Cosa disturba gli odiatori di bambini? Un po’ tutto, perché sono proprio allergici all'infanzia e lo dichiarano con orgoglio, rivendicando la propria libertà di opinione. Scelgono preferibilmente luoghi child free, ma non si accontentano di questi spazi. Ca**o, ma sti bambini sono dappertutto. (da “L’italia che odia i bambini”di Ornella Sprizzi)
“Siamo stati tutti bambini ma per alcune persone sembra che l’infanzia sia un’esperienza trascendentale da vivere in isolamento. Invece è parte della vita ed è responsabilità di tutti integrare l’infanzia con la vita della comunità”. Questo è un messaggio che mi ha scritto una mia cara amica, quando le ho raccontato una situazione molto spiacevole in cui sono stata esclusa da un invito perché mio figlio avrebbe “disturbato”. Parentesi, non era una cena di gala o un incontro con il Presidente della Repubblica, ma un semplice pranzo a casa di persone senza figli.
Per me è stato un duro colpo, l’ennesimo in questi due anni da mamma in cui mi sono resa conto che nella nostra cultura manca completamente la comprensione nei confronti delle famiglie e soprattutto dei bambini. Non sono una persona da posizione nette, ma questa volta mi sento affermarlo con profonda convinzione. Nello Stato in cui viviamo il “calo delle nascite” è sull’agenda quotidiana e la “procreazione” viene interpretata come concetto separato dalla vita del bambino e dei suoi genitori. “Condizioni e integrazione del bambino, e della sua famiglia nella comunità” dovrebbe essere sull’agenda quotidiana, perché incoraggiare le nascite (con metodi che preferisco non commentare) sembra che sia completamente scollegato dal percorso di vita che dovrà fare il nuovo nato, e i suoi genitori, per condurre un’esistenza decente. Non ci sono abbastanza supporti e servizi per far sentire un genitore con il suo bambino al sicuro, non solo in ambito pubblico, ma in tutti: dal lavoro al tempo libero. E penso che questo sia il risultato di una cultura che non solo non è “children first” come dovrebbe, ma proprio non comprende né integra l’infanzia e la genitorialità nei propri valori.
Mamme e lavoro
Una mamma su cinque lascia il lavoro dopo il primo figlio. Ne ho già parlato a lungo in questo post, quindi non mi ripeto. Da qualche mese sto seguendo un corso di puericultura che mi sta spiegando, a posteriori, cosa ho attraversato durante la maternità e che in quel momento non riuscivo a razionalizzare. Si chiama “Costellazione materna” ed è come un nuovo "universo mentale ed emotivo" che si attiva quando si diventa madre. Cambia il modo in cui la donna si percepisce e percepisce il mondo, perché tutto ruota intorno al benessere, alla sopravvivenza e alla crescita del bambino. È un passaggio psichico complesso, profondo, e spesso invisibile, o incomprensibile a un esterno. In quel momento la donna impara a garantire la sopravvivenza di un essere vivente, a gestire la paura della morte, a costruire la relazione primaria col bambino e al contempo una rete di persone fidate che sostengano lei e suo figlio. Per non parlare del grande investimento psichico ed emotivo relativo alla necessità di spostare il centro identitario femminile da figlia a madre, da moglie a genitore, da donna in carriera a madre di famiglia.
Spesso le aziende non hanno idea di cosa attraversano le madri nei primi anni di vita dei propri figli, e non ce l’hanno perché (scusate se generalizzo) ai vertici ci sono principalmente uomini, o donne che hanno dovuto rinunciare ai figli per la carriera. Persone che non si affidano a figure competenti che li supportino nella gestione della maternità, perché spesso, per quanto ci provino, qualcosa di sbagliato lo fanno. Chi non ha attraversato la maternità in prima persona, non ha la competenza per comprendere e gestire questa delicata fase della vita, non ha veramente idea di quali siano i giusti passi. Per questo stanno nascendo tante realtà a cui affidarsi per creare il giusto supporto alle neomamme lavoratrici.
Oggi, dopo due anni di colloqui di lavoro in cui i miei interlocutori schiacciano la X rossa appena oso chiedere flessibilità oraria (e sono freelance), mi sento di dire che non è una mamma su cinque che lascia il lavoro. Ma è il lavoro che lascia una mamma su cinque dopo il primo figlio.
È il lavoro, in Italia, che spesso è inadatto ai genitori. Nella maggior parte delle realtà gli orari non sono flessibili (nemmeno per i freelance), è richiesta la presenza in ufficio spesso molto distante da casa (anche per i freelance), non si lavora per obiettivi ma per orari, le call sono organizzate senza considerare le esigenze familiari. L’accoglienza al rientro dalla maternità è inadeguata, spesso le donne si sentono messe da parte, inutili, sminuite. Le aziende non hanno programmi di reinserimento, i colleghi si comportano come se fosse tutto normale, solo una piccola pausa (vacanza) dal lavoro. Non c’è comprensione né empatia, ma perché spesso c’è ignoranza sul tema.
Molte aziende respingono le madri dopo la maternità: qualche giorno fa parlavo con due neomamme che purtroppo hanno confermato questa tendenza. All prima, maestra da 8 anni nella stessa scuola, è stato chiesto di rientrare al sesto mese del figlio invece che al termine dell’anno di maternità di diritto, altrimenti non le verrà assegnata la classe. Alla seconda, segretaria in uno studio notarile, è stato negato il part time al rientro. Zero flessibilità, zero dialogo, solo pretese.
Il lavoro potrebbe tenere una mamma innanzitutto attraverso una profonda e sincera comprensione del momento. La consapevolezza che è andata via una donna ed è tornata una mamma, con sensibilità, priorità, esigenze molto diverse.
E no, non è questione di tempo perché torni tutto come prima, o almeno, non per tutte. Le aziende potrebbero supportare i nuovi genitori attraverso programmi di reinserimento personalizzati in base alle necessità della persona, del bambino e della famiglia. Potrebbero offrire supporto psicologico, situazioni di facilitazione e incoraggiamento. I manager e le manager potrebbero seguire una formazione per affinare la sensibilità su questo tema, imparare a capirlo meglio, gestirlo, normalizzarlo all’interno della propria organizzazione.
Volente o nolente una madre si porta sempre dietro il proprio bambino (fisicamente o mentalmente) ed è importante accogliere questa nuova condizione nel migliore dei modi.
E le aziende potrebbero rispondermi che non è una loro responsabilità, ma è dello Stato creare le giuste condizioni perché le famiglie siano serene. Certo, ma se lo Stato non lo fa?
Credo che sia anche dovere e responsabilità delle aziende costruire e incoraggiare una sana cultura dell’infanzia a genitorialità, perché le aziende sono fatte di persone che dedicano tutto il loro tempo a farle funzionare.
Di più, non di meno
In una puntata di Tienimi Bordone ho scoperto che nei titoli di coda dei film, alcune case di produzione inseriscono i nomi dei bambini nati durante le riprese, per passare il messaggio che anche gli stati di famiglia dei collaboratori hanno inciso sulla riuscita del film. Sono solo titoli di coda che forse nessuno leggerà e dio solo sa che cosa succede durante le produzioni dei film, ma prendo per buono il concetto di base, ovvero che se prima ero Valentina Locatelli, copywriter blablabla, oggi sono anche Mamma di Lucio e questa mia nuova “condizione” mi arricchisce e non mi sminuisce, come invece tante aziende vogliono farmi credere, solo perché desidero passare del tempo con mio figlio.
Troppo spesso mi ritrovo a essere vista come un problema, non solo dalle aziende a cui mi propongo chiedendo flessibilità, ma anche dai ristoranti a cui chiedo dove poter cambiare mio figlio visto che non c’è il fasciatoio, o dove sederlo a mangiare visto che non c’è il seggiolone. Dove mettere il passeggino visto che intralcia dappertutto, o di aiutarmi a sollevarlo sui gradini all’ingresso dato che manca la rampa.
Sono un problema (anzi SIAMO un problema, ci metto dentro anche Lucio) per tutte quelle macchine parcheggiate sul marciapiede che bloccano il passaggio e dobbiamo scendere in strada col rischio di essere investiti, per poter proseguire. Siamo un problema per tutti quelli che si parcheggiano sui posti riservati alle famiglie e che ricevono le mie maledizioni ogni volta, siamo un problema per tutte quelle persone che non hanno figli e non intendono fermarsi a riflettere cinque secondi in più per capire a come potrebbero aiutarci, o almeno - senza chiedere troppo - non farci sentire un problema.
Questa newsletter oggi non ha proprio niente di gentile e mi dispiace, davvero. Ma ci sono dei giorni in cui mi sento così frustrata dalla mancanza di comprensione, soprattutto nei confronti di mio figlio e dei bambini in generale, che la gentilezza mi sembra l’ultimo dei problemi, quando invece questo succede forse proprio perché è il primo.
Al loro posto c’eravamo noi
Siamo stati tutti bambini, tutti abbiamo avuto bisogno di essere capiti e accolti e le nostre mamme e papà hanno fatto di tutto per trovare soluzioni e farci camminare sicuri sperando in un mondo buono. Mio figlio non vede il rischio che corriamo quando camminiamo in strada perché il marciapiede è intasato di auto, e non percepirà il mio disagio nel cambiarlo sul sedile della macchina perché nel ristorante non si poteva. E ancora meno saprà quante persone ho dovuto perdere per strada perché non capivano la mia nuova condizione di mamma, o a quante opportunità ho dovuto rinunciare per riuscire a crescerlo come ritengo giusto. No, lui non saprà niente, ma io sì. Io, noi mamme, genitori, sapremo la fatica e i sacrifici che facciamo ogni giorno per far sentire i nostri bambini accolti, capiti e amati in un Paese dove sono (siamo) visti come un problema.
Smettiamola di credere, come facevo anche io, che interessarsi di infanzia sia una prerogativa di chi ha figli. L’infanzia ci riguarda tutti perché tutti siamo (stati) bambini. L’infanzia ci riguarda tutte perché tutte siamo (state) bambine. Ma quando diciamo “I bambini sono il futuro” abbiamo idea del senso di questa frase? Sembra un luogo comune ma è una voragine di senso: tutto quello che noi facciamo, ogni singolo passo, sorriso, smorfia, parola, gesto, tutto incide sui bambini. Ogni cosa che facciamo nei loro confronti lascia un segno indelebile, come un piede nel cemento fresco. Abbiamo una responsabilità enorme, sia che siamo genitori sia che non lo siamo.
Sapete, penso ancora che la gentilezza sia la nostra unica speranza, forse tutto quello che ho scritto sopra non esisterebbe se le persone, prima di aprire la bocca, sospendessero il giudizio, il pregiudizio, la presunzione di sapere tutto di tutti.
Gentilezza e comprensione vanno a braccetto, non serve una laurea in psicologia per comprendere gli altri. Specialmente se sono bambini.
Una cosa bella successa questa settimana: sono stata all’inaugurazione di uno splendido locale per famiglie a Milano (finalmente!). Si chiama Tana e come dice bene il nome è un rifugio accogliente per grandi e piccoli. È così bello che vorrei tenerlo tutto per me, ma è così giusto che dovrebbero andarci tutti.
Zollette
Tre cose gentili
In questa newsletter di Overthinker Mama si legge tutta la fatica e la meraviglia dell’essere mamma, senza filtri ma con tante lacrime. 🌸
What’s the rush? è una favola moderna ispirata al “La lepre e la tartaruga” di Esopo che insegna ai bimbi l’importanza della tolleranza e della pazienza. 🐰
I treni tedeschi, svizzeri e finlandesi hanno intere carrozze trasformate in mini parchi giochi per bambini. Guardate come sono progettate ad esempio quelle svizzere.🚂
Belle Parole
/Dudù/
Ha origine francese e significa letteralmente "coperta". In italiano si riferisce più specificamente a un oggetto che un bambino usa per sentire la vicinanza e la sicurezza: spesso si tratta di un peluche, una copertina o un altro oggetto morbido che gli trasmette una sensazione di conforto, specialmente in assenza dei genitori.
I bambini sono esserini a cui basta un cencio per sentirsi al sicuro. Non pretendono molto, solo di essere visti.
I bambini non sono persone di domani, sono persone di oggi.
Riconoscere e promuovere il loro presente è la nostra principale responsabilità.
(Maria Montessori)
Grazie per questa newsletter che forse non ha niente di gentile, ma molto di vero. Anche io sono madre di una bambina di due anni e sottoscrivo ogni tua parola.
«Oggi, dopo due anni di colloqui di lavoro in cui i miei interlocutori schiacciano la X rossa appena oso chiedere flessibilità oraria (e sono freelance), mi sento di dire che non è una mamma su due che lascia il lavoro. Ma è il lavoro che lascia una mamma su due dopo il primo figlio».
Grazie a @Valentina Locatelli per aver ribadito un po’ di concetti sul perché diventare madre oggi è un atto di coraggio.